FANTONI, GIOVANNI
di Amedeo Benedetti
Il più noto poeta della Lunigiana nacque a Fivizzano il 28 gennaio 1755, terzogenito del conte Lodovico Antonio, di antica famiglia fiorentina, e Anna De Silva, figlia di Odoardo marchese della Banditella, ministro di Spagna e Napoli.
Nel 1760 Giovanni fu mandato a Pisa, presso la zia Caterina Lanfranchi Rossi. All’età di nove anni fu inviato dal padre a proseguire gli studi di Grammatica presso il monastero di S. Scolastica a Subiaco, nella speranza di vederlo abbracciare la carriera ecclesiastica nell’ordine Benedettino. Ma il carattere ribelle del giovane e le lamentele dei monaci costrinsero il genitore a trasferirlo dopo tre anni (nell’ottobre 1767), ad Albano per studiare Umanità presso gli Scolopi, per passare poi nell’estate successiva all’austero collegio di Roma dell’ordine, il “Nazareno”, situato in un palazzo di via del Bufalo.
Le intemperanze di Giovanni comunque non cessarono, e anche nel nuovo istituto il fivizzanese non riuscì studente modello. Solo il docente di retorica Luigi Godard (Senglea, Malta, 1740 – Roma, 1824) trovò modo di interessarlo alla propria materia, indirizzandolo così allo studio dei classici latini, ed in particolare di Orazio.
Giovanni lasciò il Nazareno dopo cinque anni, avendo ottenuto un posto di apprendista presso la segreteria di Stato di Firenze. Ma anche questo tentativo di avviarlo ad una carriera amministrativa / diplomatica naufragò per lo scarso interesse del giovane, per cui il padre si adoperò affinché il granduca commutasse l’impiego del figlio nel servizio militare, preghiera che venne accolta con l’accoglimento nel luglio 1774 del ragazzo a Livorno in qualità di cadetto. Anche in questa occasione Fantoni incontrò difficoltà ad inserirsi e, col pretesto di una malattia, ottenne il congedo.
Grazie all’intervento dello zio Andrea De Silva, aiutante generale del re di Sardegna, nel settembre 1775 Giovanni entrava però presso la prestigiosa Reale Accademia di Torino. Su proposta del Godard, fu intanto ammesso nell’Accademia Arcadia di Roma il 14 gennaio 1776 con il titolo di Labindo Arsinoetico.
Fantoni utilizzò sempre in seguito il nome di Labindo, infastidito dal fatto che fosse già all’onore delle cronache l’omonimo noto medico bolognese Giovanni Fantoni. Abbandonò invece l’epiteto di “Arsinoetico”, che gli era stato attribuito dall’Arcadia per l’esistenza, in senso all’Accademia stessa, di altro “Labindo” precedente.
L’ammissione all’Arcadia orientò Fantoni a cimentarsi con convinzione nell’arte poetica.
Il 22 gennaio 1776 abbandonò l’Accademia di Torino per assumere la carica di sottotenente nel reggimento di fanteria del Ciablese, antica provincia della Savoia, ma anche questa esperienza si rivelò fallimentare. Fortemente indebitato e dopo aver sfidato un superiore a duello, venne costretto a dimettersi e fu messo agli arresti domiciliari.
Lasciò pertanto Torino nel febbraio 1779 per tornare a Fivizzano, ma si fermò a Genova, dove fu assiduo frequentatore della marchesa Maria Doria Spinola alla quale, velata sotto il nome di Lesbia, aveva da poco dedicato il componimento Le quattro parti del piacere (Genova, 1778). Attirò ancora una volta l’attenzione della magistratura per la sua grave situazione debitoria, per cui dovette far intervenire il padre. Rientrato necessariamente a Fivizzano, si dedicò ad approfondire la propria preparazione su Orazio, e all’originale e difficile esperimento di portarne i metri dentro la metrica italiana, sicuramente il suo maggior merito letterario.
Ripresa la consuetudine con il marchese Carlo Emanuele Malaspina, suo vecchio compagno al “Nazareno”, ne ammirò le iniziative riformiste, maturando quindi la propria adesione al riformismo illuminato.
Alla fine del 1780 compose l’Elogio di Maria Teresa d’Austria, che egli stesso lesse nella chiesa di Fivizzano, dove si celebrarono con lugubre pompa le esequie della grande imperatrice.
Nel 1781 pubblicò a Massa la prima minima edizione delle Odi dedicate a Caterina seconda imperatrice delle Russie ed autocrate, lodandone le iniziative. Le critiche ricevute lo portarono a riproporre l’edizione l’anno successivo con diverso frontespizio e diversa dedica, rivolta ora all’ammiraglio George Rodney, inaugurando una deplorevole abitudine (quella di dedicare opportunisticamente le stesse composizioni via via a personaggi diversi).
La grande e curiosa novità dei versi fantoniani era costituita da « una poesia formalmente derivata dai classici, e contenutisticamente calata invece nella contemporaneità della storia ». (Franco Gavazzeni, in Ugo Foscolo, Opere, tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995, p. 30).
L’adagiarsi quasi esclusivamente sul modello d’Orazio, ed il pochissimo studio della letteratura italiana (quanto avrebbe giovato a Labindo la consuetudine con la musicalità del Petrarca, che avrebbe certo reso meno urtanti per le orecchie tanti versi del poeta di Fivizzano!), comportava l’artificioso, saltellante e spesso innaturale procedere dei versi del Fantoni, che
pregiava Orazio come il primo lirico del mondo. Imprese quindi a riprodurre l’ode oraziana ricopiandone sembianze, idee, allusioni, metro, numero di versi, disegno, colorito, ogni cosa. Salvo in pochissime odi che gli furono ispirate dagli avvenimenti politici, riuscì freddo ed affettato in tutti gli altri suoi scritti. […] Quel cercare gli epiteti e adattarli in guisa che servano come di tocchi animatori, […] lo fece dare in modi strani, lambiccati, e falsamente eleganti. Altri, mettendosi su per la traccia del Fantoni, potrebbe giovarsene con assai migliore ventura. (Paolo Emiliani Giudici, Storia della letteratura italiana, II vol., Firenze, Le Monnier, 1855, pp. 472-473).
Ed effettivamente Emiliani Giudici fu buon profeta, e ci fu chi si mise sulla traccia del Fantoni nel tentativo di adattare i metri di Orazio a quelli della lirica italiana:
Gli esperimenti metrici del Fantoni furono lungamente studiati dal Carducci, che, per le sue Odi Barbare, adottò il principio fantoniano della lettura del verso basato sull’accento grammaticale italiano, al fine di renderlo somigliante al ritmo latino. (Paola Melo, Epistolario (1760-1807), Roma, Bulzoni, 1992, p. 107)
Carducci in verità, quasi fosse grato delle indicazioni per la sua poesia “barbara” ricevute dall’opera labindiana, e forse anche per la comune adesione agli ideali massonici, non si dimenticò mai dell’originale conte di Fivizzano, tanto che nel 1886
predispose un vero e proprio piano di lavoro per raccogliere informazioni su Fantoni, affidandosi a studiosi di diverse città, chiedendo loro di appurare per lui l’esistenza di carte riguardanti il fivizzanese. Si rivolse così a Felice Tribolati a Pisa, a Naborre Campanini a Reggio Emilia, a Filippo Salveraglio a Milano, a Giuseppe Biadego a Verona, ad Adolfo Borgognoni a Ravenna, a Guido Biagi a Firenze, a Isidoro Del Lungo sempre a Firenze, a Pompeo Molmenti a Venezia, a Leopoldo Barboni a Livorno, ed a Napoli al giovane Benedetto Croce. […] Un cenno a parte merita anche Giuseppe Silingardi di Modena, che non solo garantì informazioni, ma mise Carducci in contatto con la contessa Clementina Fantoni Cellesi, depositaria nell’omonimo palazzo di Fivizzano delle carte del poeta. La contessa poté quindi invitare Carducci, che si recò a Fivizzano – gradito ospite – di ritorno dalle vacanze estive passate a Courmayeur, ai primi di settembre 1887. (Amedeo Benedetti, Gli studi di Carducci su Giovanni Fantoni (in Arcadia Labindo), in “Critica letteraria”, a. XL (2012), fasc. 2, n. 155, pp. 371-387).
Ne scaturirono diversi articoli sul Nostro (cfr. infra, in Bibliografia), stranamente di natura biografica più che stilistica.
Il periodo passato a Fivizzano da Labindo nei primi anni Ottanta fu funestato da una drammatica vicenda personale: dalla relazione di Giovanni con una sua domestica, Caterina Mancini, nacque nel 1783 un figlio, che la madre uccise. La triste vicenda spinse il poeta a scrivere l’ode In morte di un bastardo, inserita nella piccola serie delle Notti.
Il poeta si dedicò poi all’edizione degli Scherzi, stampata a Massa (anche se con falsa indicazione di Berna) presso la tipografia Frediani nel gennaio 1784, dedicata al principe Giorgio Nassau Clawering Cowper.
Nel maggio, in occasione della visita dei regnanti di Napoli al granduca Pietro Leopoldo, Fantoni si recò a Firenze, pubblicando quattro odi elogiative dei sovrani partenopei (nell’opuscolo Per la faustissima venuta in Toscana di Ferdinando di Borbone, Re delle due Sicilie, etc. etc. e di Carolina d’Austria, sua consorte, Firenze, Gaetano Cambiagi, 1785), ottenendo dalla regina Maria Carolina di potersi recare a Napoli alla sua corte.
Presso i sovrani borbonici, poté frequentare assiduamente personalità eminenti quali Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Alberto Fortis, Melchiorre Delfico, Domenico Cotugno, l’abate Vincenzo Corazza, esperienza notevolmente formativa per il poeta fivizzanese, che aderì agli ideali della Massoneria, attraverso l’affiliazione alla Gran Loggia Provinciale del Regno di Napoli e Sicilia.
Certamente l’esperienza napoletana si rivelò decisiva nell’indirizzare il Fantoni verso quelle istanze politiche e sociali che sarebbero poi esplose nell’accoglimento delle prospettive giacobine, sia infondendogli un’incrollabile fiducia nel valore pedagogico delle leggi, sia mettendolo per la prima volta a contatto con l’ambiente della massoneria, dove le grandi questioni del momento, la feudalità, la rappresentanza politica, l’uguaglianza, l’istruzione del popolo venivano affrontate con grande apertura e spregiudicatezza. (L. Rossi, Fantoni, Giovanni, in D.B.I., v. 44, Roma, 1994)
Altre profonde relazioni Fantoni ebbe a Napoli col cenacolo dei fratelli Antonio e Domenico de’ Gennaro (Duca di Belforte e Duca di Cantalupo). Sempre alla corte napoletana strinse nel periodo 1785 – 1788 un’intensa relazione affettiva con la dama di compagnia della regina, Giuseppina Grappf. La Grappf, malata di tisi, rientrerà a Vienna nel 1787, dove morirà nel 1891.
Le antipatie attirategli dall’amore per la chiacchierata Giuseppina, il profuso suo spendere, la sua poca cautela nei discorsi, e varie sue imprudenze, spinsero Fantoni ad abbandonare Napoli nel maggio 1788, per evitare qualche grave sventura.
Alla ricerca di nuove prebende, si recò a Roma, sperando di entrare nelle grazie del pontefice Pio VI. Non vi riuscì, e dovette mestamente rientrare nella nativa Fivizzano.
Continuò ad accrescere la propria produzione poetica pubblicando una nuova edizione delle Poesie (Livorno, Carlo Giorgi, 1792), ed avviò anche una serie di ingenui e talvolta velleitari appelli ai potenti della Terra, iniziando con quello A quei monarchi dell’Europa che ne abbisognano, dove sosteneva come bastasse la buona volontà dei regnanti per garantire la felicità dei sudditi.
Nel 1792 mutò ancora la propria posizione politica, aderendo al giacobinismo di Rousseau, Condorcet, e soprattutto Robespierre, tanto da allarmare le autorità fivizzanesi, che denunciarono nel 1794 la sua appartenenza al partito dell’Assemblea Nazionale.
L’anno successivo, deceduto il padre ed in lite con i fratelli per la divisione del patrimonio paterno, manifestò appieno il suo giacobinismo traducendo l’Inno all’Esser Supremo di Joseph-Marie Chénier, e divenendo nei mesi successivi uno dei protagonisti della scena politica italiana, svolgendo l’attività di agitatore ovunque in Italia ne ravvisasse il bisogno. Nel maggio 1796 fu infatti a Reggio Emilia, uno dei primi centri insorti contro i vecchi regimi. Nell’autunno fu protagonista di un fatto d’armi che gli diede immensa notorietà: con un drappello di reggiani e di francesi mosse contro una formazione austriaca nelle vicinanze della città. Riparatisi nel castello di Montechiarugolo, gli Austriaci si arresero dopo un breve combattimento. L’impresa dal punto di vista militare non fu particolarmente gloriosa ed eroica, ma ebbe comunque giustamente risonanza in quanto risultava il primo fatto d’armi che vedeva protagonisti gli italiani.
Fantoni si spostò successivamente a Milano, il centro dell’Italia giacobina, dove il 14 novembre 1796 partecipò ad una manifestazione dove si decise di inviare a Napoleone Bonaparte un atto con il quale veniva ufficialmente dichiarata la libertà e l’indipendenza del popolo lombardo, ciò che causò l'arresto di Labindo e dei patrioti più esposti, sia pure per poche settimane. Si spostò quindi a Modena, dove nel dicembre 1796 si era formata una Società di pubblica istruzione, a cui Fantoni diede notevole sostegno con i suoi infiammati discorsi, che - riportati dal «Giornale repubblicano» – riscossero una caldissima accoglienza, specie quello nel quale invitava tutti i fanciulli della città a costituire il “Battaglione della speranza”, accompagnandolo con l’inno “Ora siam piccoli ma cresceremo”, il suo verso più ricordato.
Nella memoria presentata all’amministrazione generale della Lombardia per il concorso del 27 settembre 1796, Fantoni affermava la momentanea impossibilità di costituire una Repubblica che abbracciasse l’intera Italia, sia per l’ostilità al riguardo della Francia, sia per le differenze troppo forti tra Nord e Sud Italia. Meglio puntare realisticamente intanto alla creazione di una Repubblica lombarda fondata su principi democratici.
Nel giugno 1797 si recò a Venezia, al seguito di una commissione modenese incaricata (in modo piuttosto irrealistico) di chiedere al deposto sovrano di Modena Ercole III dell’improbabile cospicuo pagamento delle tasse imposte alla città emiliana dai Francesi. La missione ovviamente non dette l’esito sperato, anche se il fivizzanese accrebbe la sua fama, anche mediante la sua ode All’Italia, composta per l’occasione.
Nell’autunno fu poi a Genova (accolto molto favorevolmente da patrioti tra i quali il padre di Giuseppe Mazzini, Giacomo), e quindi nuovamente a Milano, dove fu molto attivo (con personaggi quali Ugo Foscolo e Giovanni Pindemonte) nel Circolo costituzionale milanese. Nel luglio 1798 - scriveva all’ambasciatore Claude-Joseph Trouvé:
Se delle riforme sono necessarie si facciano, non rinnegando i poteri costituzionali, ma conservando l’integrità inviolabile di questa costituzione [...]; allora il popolo si accorgerà che la sua sovranità non esiste solo in vani scritti e che la sua indipendenza non è né un’illusione né un sogno. (Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino, UTET, 1986, pp. 200 e ss.).
Alla fine di agosto, venne arrestato dal Trouvè ed esiliato, unitamente ad altri esponenti di spicco del giacobinismo. Una volta liberato, venne nominato commissario straordinario a Modena, ma nel dicembre 1798 raggiunse il Piemonte, con il compito da parte della “Società dei raggi” (che ricordava molto l’associazione organizzata da François-Noël Babeuf) di impedire l’ormai imminente annessione del Piemonte alla Francia favorendone invece l’unificazione alla Cisalpina, quale primo nucleo della formazione di una Repubblica italiana.
L’11 febbraio 1799 vennero arrestati molti membri della congiura furono arrestati e Labindo venne rinchiuso nella cittadella di Torino, per poi essere avviato il mese successivo a Grenoble, dove venivano raccolti gli esuli italiani. Qui il fivizzanese – la cui abitazione divenne punto di riferimento degli esuli italiani – venne considerato come capo e anima del cosiddetto “partito italiano”.
Nell’estate prese apertamente le distanze dall’operato degli agenti francesi in Italia, suscitando spesso la perplessità di molti esuli, che iniziarono a considerarlo un “fanatico”, un “visionario”, accusandolo anche di aver incamerato una raccolta di fondi destinata ai fuorusciti italiani, non distribuendola a chi era destinata.
In ottobre Fantoni raggiunse a Cuneo il generale J.-A. Championnet, comandante dell’Armata d’Italia. Avuto il permesso di recarsi a Genova pubblicò una nuova serie di versi (Le Odi di Giovanni Fantoni cognominato Labindo, Angelo Tessera, 1799) e la Lettera di un italiano a Bonaparte, dove accusava Napoleone di aver tradito le attese dei patrioti italiani, abbandonando ogni ideale di libertà e giustizia.
Il 4 giugno 1800 lasciò Genova, ormai ridotta alla fame, riparando a Finale, poi a Savona, ad Albisola, ed infine nuovamente a Genova, dove nel frattempo erano rientrati i Francesi. Nel dicembre del 1800 si stabilì a Massa, e nel febbraio 1801 fu chiamato dall’università di Pisa a ricoprire la cattedra di eloquenza e belle lettere, anche se poco dopo, mutato il clima politico, venne rimosso da tale incarico. Si stabilì allora nuovamente a Massa.
Nel 1803, scrisse l’Epistola a Bonaparte (pubblicata postuma da Alessandro D’Ancona, Pisa, Nistri, 1890), un carme di oltre 400 versi, che rappresenta un po’ il testamento politico del fivizzanese, dove accanto a inviti generici a ripercorrere gli esempi virtuosi della storia passata d’Italia, ed a operare per la felicità stessa del nostro Paese, Fantoni invocava una comune educazione, costumi sobri, una forza militare nazionale. Qualcosa di molto letterario, insomma. A questi vecchi auspici, si univano anche ingenuità nuove, come quella di invitare Bonaparte a deporre fucili e cannoni per tornare a combattere all’arma bianca (immaginiamo l’impressione che a Napoleone avrebbe fatto l’invito qualora l’epistola gli fosse stata inviata realmente, proprio a lui che – ufficiale d’artiglieria – aveva costruito la sua carriera a Tolone, cannoneggiando magistralmente i realisti e le navi inglesi!).
Il 25 agosto 1805 Labindo venne nominato segretario dell’ormai decaduta Accademia di belle arti di Carrara, che rivitalizzò coinvolgendo alcuni tra i più significativi artisti dell’epoca (come Antonio Canova, Jacques-Louis David, Vincenzo Camuccini e Raffaello Morghen).
Ma l’insofferenza verso il Regno d’Etruria, a cui la Toscana era sottomessa, e la voglia di tornare a pensare unicamente alla poesia, lo spinse nel 1807 ad andare a vivere nella campagna modenese, a Corticella, in una tenuta del suo vecchio amico Antonio Lei. Ma durante questo trasferimento la morte lo colse a Fivizzano, probabilmente per tifo, il 1° novembre 1807.
Opere principali:
Opere di G.F. fra gli Arcadi Labindo a c. di A. Fantoni, I-III, Lugano, 1823-1824;
Poesie di G.F. fra gli Arcadi Labindo, a c. di G. Lazzeri, Bari, Laterza, 1913;
Epistolario (1760-1807), a c. di P. Melo, Roma, Bulzoni, 1992.
Bibliografia:
A. Fantoni, Memorie istoriche sulla vita di G. F, in Poesie di G. Fantoni fra gli arcadi Labindo, Italia (Firenze), 1823, III, pp. 225-316;
G. Carducci, La lirica classica nella seconda metà del sec. XVIII, in Lirici del secolo XIII, Firenze, Barbèra, 1871, pp. CIV-CXXXVI;
G. Carducci, Un giacobino in formazione e Un poeta giacobino in formazione, in Ed. naz. delle opere, XV, pp. 213-35; XVIII, pp. 57-82, 83-113;
G. Sforza, Contributo alla vita di G. F. Labindo, in « Giornale storico e letterario della Liguria », Genova, VII (1906), pp. 121-168; 241-277; 361-384; VIII (1907), pp. 5-40; 141-192; 283-338; 361-413; IX (1908), pp. 37-69; 148-175;
L. Russo, G. F. arcade e giacobino, in Belfagor, X (1955), 5, pp. 505-16 (ora in Il tramonto del letterato, Bari, Laterza, 1960, pp. 28-45);
M. Cerruti, G. F. neoclassico e giacobino, in Neoclassici e giacobini, Milano, Silva, 1969, pp. 117-260;
P. Melo, Autoritratto dalle lettere di G. F., in Acme. Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Milano, XXXVII (1984), pp. 129-197;
A. Benedetti, Fortuna critica di Giovanni Fantoni (in Arcadia Labindo), in “Atti e Mem. Dep. st. patr. Prov. Modenesi”, s. XI, vol. XXXVI (2014), pp. 127-162.